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Un'alba magica nella steppa della Mongolia

 

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Viaggio in Mongolia

 

Foto e testo di Davide Pianezze

 

L’acqua arriva da ogni direzione; dall’alto siamo investiti da un muro di pioggia che continua ad aumentare d’intensità, mentre dal basso arrivano gli schizzi del fango sparati dai pneumatici. I fari del fuoristrada creano un gioco di luci psichedeliche e inquietanti che rendono lo sfondo ancora più cupo e disorientante. Col tramonto abbiamo perso sia le tracce della pista (ormai allagata) che il contatto visivo con gli altri due mezzi. Navighiamo alla cieca per diverse ore. Ormai disillusi e arresi al pensiero di dover trascorrere la notte accovacciati sui sedili dei fuoristrada non appena il combustibile sarò terminato, ci ritroviamo inverosimilmente nel centro di un camp al cospetto del personale, schierato militarmente di fronte alla porta del ristorante, pronto a darci il benvenuto. Resterà per sempre un mistero come gli autisti siano riusciti a individuare il sito (senza l’aiuto di alcun tipo di supporto tecnologico), dopo tante ore di viaggio in mezzo al nulla, circondati solo da buio e acqua. Oltre a riconoscere le loro straordinarie abilità inizio a pensare che le divinità locali, costantemente presenti nella vita di tutti i mongoli, ci siano venute davvero in aiuto. Probabilmente si tratta delle stesse divinità che le guide ci hanno insegnato a onorare ogni volta che si incontra uno stupa o uno dei tanti cumuli votivi (ovoo). In ogni occasione il rito prevede che tutti i preseti scendano dai mezzi e camminino intorno al sito in senso orario per almeno tre volte. Gli spiriti saranno inoltre ben lieti di accettare qualsiasi offerta, come una manciata di riso o qualche pietra raccolta in strada. Ora che siamo miracolosamente arrivati a destinazione ci spieghiamo le ragioni di tanta devozione da parte del personale che ci accompagna.

Terminata la cena ci prepariamo ad affrontare l’acquazzone che ci separa dalle nostre ger, (le tende mongole simili alle più note yurta russe). Prima di lasciare il ristorante propongo ai miei compagni di viaggio di incontrarci all’alba del mattino successivo per andare in cerca di “qualcosa che sicuramente incontreremo”, senza avere idea di cosa potrà essere. Gli sguardi dubbiosi e increduli, probabilmente alimentati anche dalla stanchezza e dagli scrosci d’acqua che continuano a giungere dall’esterno, mi lasciano intendere che il gruppo di mattinieri non sarà numeroso. La mia proposta viene presa in considerazione da due di loro che confidano sulla promessa di fargli trovare il cielo completamente libero da nubi.

Il cigolio di tre piccole porte in legno tinte di arancione, come vuole la tradizione dell’architettura mongola, spezza il silenzio mattutino della steppa. Esco dalla tenda dopo aver battuto la testa per l’ennesima volta contro il traversino superiore della piccola entrata. Incrociato lo sguardo dei miei due compagni di fotografia indico la direzione da seguire. Ci muoviamo lentamente, irrigiditi dal freddo, e ci allontaniamo dal camp senza fare rumore per non svegliare chi ha preferito il tepore delle coperte. Volgiamo lo sguardo vero l’alto e scopriamo un colore che trova la sua unica definizione in “blu cielo Mongolia”. Procediamo fino a raggiungere la cima di una collina da dove si apre uno scenario immenso, nitido, surreale. La dimensione intorno a noi è più simile a quella di un oceano che a quella offerta dagli spazi terrestri. Ad est il sole sta per oltrepassare la linea dell’orizzonte, mentre ad ovest un corso d’acqua zizzaga tra le praterie tagliando in due la steppa. E nel momento in cui le alture iniziano a colorarsi, da dietro una collina distante diversi chilometri, appare un uomo a cavallo che si dirige verso il fiume. Restiamo immobili, in attesa che l’immagine si componga. Poi l’uomo e il suo cavallo raggiungono il fiume e nello stesso istante si alza il vento silenzioso delle praterie che sembra amplificare i nostri clic, clic, clic…

 

Il momento dello scatto

Indossati guanti e cappello di lana assicurai l’attrezzatura al cavalletto, senza estenderlo completamente per renderlo ulteriormente più stabile. Optai per la ricerca dei dettagli, utilizzando quindi un teleobiettivo. Per via della notevole distanza che mi divideva dal soggetto installai un filtro polarizzatore in modo da ridurre l’effetto foschia e rendere l’immagine più contrastata. Grazie all’uniformità della luce e alla tonalità neutra dei colori decisi di affidarmi all’esposizione matrix, in modo da potermi concentrare maggiormente sull’inquadratura e sull’istante. Selezionata la modalità in priorità di diaframma sottoesposi di - 0,7 EV e impostai l’apertura del diaframma mediamente chiusa (f 14) per sfruttare la massima nitidezza offerta dall’obiettivo. Per via della luce non ancora intensa iniziai a scattare controllando regolarmente che il tempo dell’otturatore non scendesse sotto il cinquantesimo di secondo.

Quell’attesa si trasformò in un momento magico, uno dei tanti che ho vissuto grazie alla fotografia.

 

Dati tecnici

Data: 11 Agosto 2007

Corpo macchina: Nikon D2X
Obiettivo: Nikon 80/20 f2,8
Apertura diaframma: F14
Tempo otturatore: 1/50

Compensazione esposizione: - 0,7
Sensibilità sensore: ISO 320
Modo di ripresa: A (priorità di diaframmi)

 

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